Scomparsa l'industria per la lavorazione delle pelli, il cui profitto dava sostenimento a molte famiglie (dato che il prodotto esportato nelle regioni vicine era molto richiesto ed apprezzato) è invece tuttora fiorente la lavorazione delle ceramiche artistiche e della terracotta vivacemente colorata, anche se progressivamente e metodicamente stanno venendo a mancare i grossi laboratori ed i grossi forni a legna ed a sanza che un tempo venivano utilizzati per la produzione di materiale edile (mattoni, tegole, fumaioli, ecc.) - (Zappone 1988, p. 15).
Oltre vent'anni sono trascorsi da quando Zappone già denunciava il progressivo declino dell'arte ceramica seminarese. Oggi le botteghe che ancora perpetuano, con una tenacia che non manca di stupire, i sistemi tradizionali di lavorazione e di cottura sono due soltanto, mentre le altre attive nel centro, delle varie decine attestate nel secondo dopo guerra, hanno finito, inevitabilmente, per adeguarsi al progresso tecnologico e alle nuove tendenze del gusto, perdendo però in parte quei connotati tipici ghe avevano reso per secoli i prodotti seminaresi inconfondibili tra i manufatti analoghi non solo calabresi. Sebbene non sia stata ancora chiarita l'epoca in cui accanto alla produzione di stoviglie da cucina sia stata introdotta a Seminara l'usanza di una lavorazione della ceraminca con valenze decorative, di certo al tempo della redazione del Catasto Onciario tale occupazione costituiva una delle principali attività manifatturiere della popolazione.
Nel 1746 risultano, infatti, attivi a Seminara 23 pignatari, quasi tutti residenti nel borgo periferico che traeva la propria denominazione dalla concentrazione delle fornaci di pignate, secondo una tendenza documentata in varie località che discendeva dall'esigenza di limitare i rischi d'incendi: Antonio di Condina, Antonino e Vincenzo Russo, Antonino, Paolo e Michele Terraniva, Antonio Valenti, cinque membri del clan Evangelista (Bartolo, Rruno, Saverio, Egidio, Matteo), Bruno ed Aran Morè, Ivan e Nicola Schimizzi, Aran e Giuseppe Russo, Nicola e Stefano Doculano, Paolo, Bruno e Santo Marano (Donatone 1983). Da questo elenco risulta subito la presenza di artigiani di origine ebraica.
Nel 1777 un viaggiatore inglese, Henry Swinburne, nota nel paese << una certa animazione di industrie ceramiche>>. Dal catasto del 1824 si rileva nella cittadina, messa in ginocchio dal grande flagello del 1783, la presenza di quattro fornaci ossia fondaci di pignate, ancora per lo più ubicate nel quartiere Pignatari - appartenenti a Don Francesco Antonio Soraci, maestro Domenico Antonio Russo e signor Vincenzo Evangelista - ma anche al Borgo - maestro Luigi Furato e al Partuso - maestro Gaetano Collura - in ogni caso quartieri periferici.
Nella seconda metà dell'800 la produzione subisce un'impennata, tanto che nel 1880 il Corona registra l'attività di ben 28 fornaci, con relativi mulini azionati a mano per la macinazione degli smalti, che davono lavoro a 57 addetti: 25 tornitori, 18 fornaciai e 14 smaltitori. Si producevano . La commercializzazione del prodotto seguiva le vie dei pellegrinaggi, sulla scia della devozione alla Madonna dei Poveri, che attirava a Seminara un notevole concorso di pellegrini, ma anche grazie alla mobilità dei pignatari che allora come oggi non mancavano di esporre le proprie mercanzie alle principali fiere della regione.
Intorno al 1948, per iniziativa di Vincenzo Infantino, un insegnante laureato in Pedagogia a Messina, viene fondata una cooperativa alla quale aderiscono quasi tutti i ceramisti operanti nella cittadina, circa una sessantina, tra i quali figurano gli ultimi membri dei clan Russo e Ioculano, accanto a maestri ancora viventi come Domenico Ditto, Antonio Ferraro e Antonio Latino. Anche se ad oggi le conoscenze della ceramica seminarese sono limitate a manufatti ottocenteschi, come ha osservato Donatone (1983), è presumibile che le tipologie attestate nell'800 ripetano <>. Tra le forme prodotte - anfore biansate (lancelle), boccali (cannate), talora con ornati a rilievo (cuccumi), piccole brocche con becco (bumbuleji), orci a foggia di riccio (porroni a riccio), borracce a ciambella, lanterne, bottiglie e fiasche antropomorfe (babbaluti o babbuini), maschere grottesche, vasi da balcone (graste) - si segnalano per il loro carattere votivo, la borracce a forma di pesce, che costituivono il distintivo rituale dei pellegrini della fiera di San Rocco a Rosarno. Altra tipologia tipica, dalle valenze quasi "iniziatiche", è il gabbacumpari (bevi se puoi),una brocca da vino con una serie di fori, da dove può bere soltanto chi è particolarmente abile.
Tra i ceramisti ancora attivi a Seminara, due sono quelli che mostrano il maggiore attaccamento alla tradizione, sia nelle tipologie fittili che nelle tecniche e nei materiali adoperati. Nato nel 1936, Domenico Ditto continua a lavorare l'argilla del posto, cavata in località forese, manipolata e trafilata per macinare i granelli di sabbia che creerebbero problemi durante la lavorazione. Mastro Domenico sa che quell'argilla possiede caratteristiche plastiche ed elastiche eccezionali, ed è quanto mai adatta alla cottura nella tradizionale fornace a legna, costruita con mattoni e una terra grassa detta maddu, simile a un forno da pane, e che egli stesso ha fatto riprodurre, come gli aveva insegnato il padre Giuseppe, nel retro della nuova bottega alle spalle di Piazza Mercato dove si è trasferito negli anni 70 lasciando il laboratorio paterno che aveva sede nell'attuale via San Marco. Anche i "colori" adoperati sono quelli che preparava da sè nell'apposita macina, mescolando il piombo cotto in una piccola fornace con gli ossidi metallici (a base di rame per il verde, di ferro per il giallo, di manganese per il marrone, ai quali si aggiunge il pigmento noto come blu Sevres). Mastro Domenico, oltre ad aver avviato all'attività il figlio Antonio, è affiancato, ormai da quattro anni, da un giovane discepolo, Francesco Lombardo, al quale ha trasmesso tutto il bagaglio dell'arte dei maestri pignatari. Su Francesco, entrato in bottega ad appena sedici anni e che ha già acquisito un'eccezionale pradronanza della complesse tecniche di lavorazione e di cottura, grava l'onere di garantire ad altre generazioni la trasmissione dei segreti della plurisecolare tradizione ceramica seminarese. Se la fornace di Ditto dotata di copertura cupoliforme, si carica leteralmente attraverso uno stretto varco chiuso da una porta metallica, tratti ancora più arcaici rivela la fornace utilizzata da Rocco Condurso, l'unico che ancora mantiene il proprio laboratorio nella vecchia bottega paterna al borgo dei Pignatari. La sua fornace, del tipo detto "a pozzo aperto", larga e profonda circa 1,8 m, si carica dall'alto. Al suo interno, le ceramichele ceramiche da cuocere devono essere sistemate in modo da creare una sorta di "cupola" che viene infine rivestita con vecchi cocci e scarti di cottura. Questo forno non richiede canna fumaria perchè il fumo fuoriesce naturalmente dagli interstizi del tetto, con le tegole poggiate direttamente sull'ordito di travi e correntini. Anche mastro Rocco, nato nel 1948, impegna l'argilla locale che conserva in uno spazio all'aperto, accanto alla bottega, coperta da un telo impermeabile. Nei mesi invernali preferisce adoperare il vecchio tornio a padali, per esorcizzare l'aria gelida che penetra nell'antico fabbricato da ogno dove.
Una strada diversa ha intrapreso il fratello Paolo Condurso, che pur avendo mosso anch'egli i primi passi nell'alveo della tradizione, appresa dal padre Gennaro, ha sviluppato nel tempo un linguagio artistico autonomo. Nato nel 1928, la sua produzione si distingue, infatti, per l'estro creativo degli ornamenti plastici e i cromatismi vivaci introdotti a interrompere il predominio dei gialli e dei verdi. Accanto a manufatti che riproducono forme tipiche, sia pure reinterpretate, in buona parte le ceramiche del Cavaliere, che firma i suoi pezzi per incisione, sono ormai sganciate dalla tradizione seminarese, sia nelle tipologie che nella scelta dei materiali - argilla importata da Santo Stefano di Camastra e smalti industriali - e nelle modalità di cottura che avviene in un moderno forno a metano. I suoi prodotti non sono più ceramiche di Seminara, sono semplicemente creazioni di Paolo Condurso, che, a buon diritto, si sente più artista che semplice ceramista. Fino a quando ha protratto la sua attività, anche Antonio Ferraro, classe 1934, utilizzava per la cottura una fornace " a pozzo aperto" che aveva fatto riprodurre, nel seminterrato del nuovo laboratorio dove si era trasferito intorno al 1968, sul modello dell'antica nell'originaria bottega nel borgo dei Pignatari, dove aveva appreso l'arte dal padre Giuseppe (1890 - 1983) e dalla quale provengono i pezzi, diligentemente rimontati, della grande macina per smalti, un tempo azionata da un mulo, di cui pare si servisse gran parte dei ceramisti seminaresi. Il congrgno è conservato come un cimelio dal figlio Vincenzo Ferraro, che continua ad operare la camera di essiccazione paterna, in parte scavata nella roccia, pur essendo passato al più pratico forno a metano. La sua produzione si colloca a mezza strada fra tradizione, mantenendo le vecchie tipologie con una versione del repertorio formale in chiave più sobria ed essenziale. La via dell'innovazione ha scelto anche Giuseppe Ferraro,con il quale ceramica seminarese ha abbandonato l'accento popolaresco per acquisire una veste più colta e raffinata sebbene per certi aspetti meno caratteristica. I tempi di lavorazione sono snelliti grazie all'uso di panetti confezionati di argilla di produzione toscana e alla cottura tramite forno a metano. Anche gli smalti pur mantenendo la gamma cromatica consueta, con una particolare predilezione per i gialli, sono quelli forniti dall'industria e presentano una finitura superficiale più liscia e omogenea. Nella bottega di Giuseppe Ferraro si possono trovare manufatti estranei al repertorio tradizionale seminarese ma molto richiesti dal mercato contemporaneo, come appliques, lampade, fioriere pensili, vasi impreziositi da fiori e frutti variopinti.